domenica 30 settembre 2012

Il vero viaggio comincia adesso.

E forse è questa, la vera partenza. Dopo un’estate passata a vagabondare, il vero viaggio è il ritorno alla normalità, all’abitudine. E la vera meta sarà riuscire a fare le stesse cose di sempre, con uno spirito diverso. E pensare a domani mi dà la misura del tempo che passa, ché in questi due anni non ho visto succedere mai niente, e per quanto amassi portare i miei passi in quel luogo, finivo ogni anno satura di quel niente, che per me era tutto. Ho imparato a considerare l’università come una seconda casa, a sentirmi a mio agio in ogni suo luogo, eppure mi accorgo che non è cambiato niente per davvero. Due anni della stessa strada ogni mattina, delle stesse facce a lezione, di pranzi sempre uguali; due anni di pagine, di pomeriggi su una sedia, sempre la stessa; due anni di un tempo che è iniziato e morirà lasciandomi uguale, se non mi deciderò a renderlo diverso. Perché davvero dipende tutto da me, non ho scuse. Eccetto il cercare senza sosta le mani che avrebbero potuto rendere più dolce il mio cammino, le stesse che dopo avermi tirato su con un balzo, mi hanno poi tenuta ferma per anni, seduta nello stesso luogo. E ho deciso per questo, di ricominciare a camminare, e di farlo per davvero. Ho preso questa estate e l’ho girata tutta, ne ho esplorato ogni angolo, l’ho vissuta con tutta l’intensità e i sorrisi che riuscivo a concedermi, e che non sempre sono stati solo i miei. E se in tutto questo vagabondare una cosa almeno l'ho capita, è che davvero non serve a nulla nascondere una fuga dietro una partenza. Perché il risultato sarà inevitabilmente una falsa partenza. E un ritorno a testa bassa.

E che sia allora un anno diverso, questo.
Che io riesca a fare tutto per bene, come sempre ho fatto, senza però morire nell’abitudine.
Che io riesca a dare un senso ogni volta diverso ai giorni sempre uguali che mi aspettano.
Che io riesca a ritagliarmi il tempo per avere tempo, in qualsiasi modo io lo voglia riempire.
Che io riesca a fare in modo che sia sempre primavera.

E allora ripongo tutta la mia speranza negli occhi che sapranno mettere fine alla ricerca.
In chi mi farà scordare qualsiasi domanda, in chi sarà la risposta,
in chi mi capirà senza bisogno di parole, in chi saprà interpretare i miei silenzi, che saranno il bozzolo delle parole di farfalla che saprà farmi dire,
in chi mi saprà far sorridere per la sola gioia del vederlo,
in chi mi saprà far sentire al posto giusto per il solo sedergli accanto,
in chi renderà i miei giorni felici, in chi mi permetterà di migliorargli le giornate,
in chi saprà ricordarmi ogni giorno che la cosa più bella del viaggio è partire in due, e che è poi questo, lo scopo di una vita intera.

Ripongo tutta la mia speranza in te che saprai farmi rischiare un plurale; perché davvero esiste un modo soltanto per vivere completamente la propria vita: cederne metà a chi ti siede accanto.

Si sa mai che vada bene, per una volta.

sabato 1 settembre 2012

Riportando tutto a casa.


Non lasciare che io debba finire di percorrere questa strada senza averti incontrato almeno una volta, fosse anche per una breve, eterna sosta; non far sì che io debba tornare senza che tu mi abbia chiamato, almeno sottovoce, almeno in silenzio.
Non obbligarmi in questo altrove ancora a lungo, ché di fuggire comincio a essere stanca. Riportami a casa.

Riportami a casa perché non vedo l’ora di tornare.

Riportami a casa.

Riportami a casa perché voglio tornare a percorrere con lo sguardo la linea del tuo sorriso.

Riportami a casa.

Riportami a casa perché non voglio più sentire la mancanza, all’altra estremità del tempo.

Riportami a casa.



“In fondo, era solo un altro modo di correre incontro a un treno in corsa. Da lontano, da dovunque, io non ho fatto che camminare verso quel punto esatto. Lì, quel giorno, io sarò arrivata alla fine del mio cammino. Dopo… Tutto quello che accadrà dopo… Non conterà più niente”

giovedì 2 agosto 2012

Sleepwalk in Rome.

Ho camminato, stamattina. Ho preso i miei passi e li ho messi uno dietro l’altro. Camminavo Milano con Roma negli occhi, camminavo rincorrendo sensazioni, camminavo rivedendo momenti spensierati e meravigliosi. Me li sono vista passare davanti tutti, quei momenti, con la sottile malinconia che ti prende lo stomaco fino a raggiungere la gola, qualche battito prima delle lacrime; la sottile malinconia del ricordo delle cose belle e pulite, quelle che vorresti durassero per sempre, o che almeno vorresti riuscire a non dimenticare mai. Pochi momenti sono stati così leggeri, e quei tre giorni romani li metterò nel cassetto delle sensazioni più vicine alla felicità che io abbia mai provato, con la consapevolezza che in quei tre giorni di contentezza, la felicità l’ho sfiorata per davvero. Le sensazioni racchiuse in quel cassetto riesco a riviverle come fossero ancora reali, tanto che a distanza di anni, se ci ripenso, sento ancora il freddo ai piedi della prima sensazione che ho infilato in quel cassetto. E voglio che per questi tre giorni sia lo stesso, e che a distanza di anni, ripensandoci, io riesca ancora a sentire il calore del sole che mi brucia la pelle, o la stanchezza nelle gambe per le infinite camminate, o l’odore di quelle notti vissute come giorni. E vorrei non dimenticare mai la meraviglia degli occhi, quelli che sgranavo ad ogni nuova via che imboccavo, ad ogni ponte sul Tevere che attraversavo, ad ogni incredibile monumento che guardavo, senza parole di fronte a tanta bellezza. E vorrei non dimenticare le risate da farti male alla pancia, quelle che se ci ripensi ridi ancora, quelle che non credo di aver mai riso così tanto in così poco tempo, e i sorrisi di chi nonostante la stanchezza ti fa compagnia fino all’alba, e che poi ti offre pure la colazione, e che guida per chilometri per portarti dove nemmeno ha voglia di andare, e gli occhi un po’ tristi di chi avrebbe tanto voluto andare a dormire, ma che poi era contento di essere lì, e che a parole non te lo sa dire, ma che poi fotografa e allora non c’è bisogno di dire più niente.
Lascio Roma, ma non la lascerò mai davvero. Lascio Roma e mi porto via tutto. Ogni colore, ogni strada che ho percorso, ogni profumo che mi è entrato nelle narici e che non so dimenticare, ogni filo d’erba su cui mi sono sdraiata a riposare; voglio portare con me ogni centimetro che ho percorso, ogni squarcio di cielo in cui ho lasciato correre lo sguardo, ognuna delle meraviglie che ho visto e che vorrei poter tornare ad ammirare, ognuna delle sensazioni che mi hanno tolto il fiato. Come guardare Roma svegliarsi, in piedi su un muretto, quando tu ancora non sei andato a dormire, come passeggiare lungo il Tevere a tarda sera e vedere com’è, quando tutto è illuminato, come fermarsi a giocare a calcetto a un‘ora imprecisata della notte, come la briscola seduti per terra alle quattro del mattino, come rendersi conto che non avrebbe senso andare a dormire e allora continuare a ridere fino all’alba, come partire dalla città e arrivare al mare, come il senso che ognuno di noi ha dato a quella fiammella, come capire che in qualche modo si può avere vent’anni per sempre.

Come aver dato la forma dei ricordi alla mia canzone preferita.


martedì 31 luglio 2012

Lettere salentine.

Non tutti i viaggi portano a un luogo. E non è certo per vedere posti nuovi, che sono partita. Andare e tornare: andare a cercarmi, tornare a prenderti. Era questo lo scopo del viaggio. Partire e tornare con nuovi occhi. Nuovi occhi per guardare i tuoi, sempre gli stessi, sempre bellissimi. Quelli che ogni notte mi tolgono il sonno. Dovresti rendermele in giorni, tutte queste notti. E dovresti anche stare attento, con quegli occhi, che non sai per quanto tempo me li porterò dietro, cercando ovunque un colore uguale, già sapendo in partenza che non potrà mai esistere nulla di simile. Ma tutto sommato poteva andare peggio: potevo non incontrarti. Sarà che non riesco a smetterla mai con “le cose che volevo fare”, anche se il passato è passato e per quanto io mi sforzi non ci potrò più vivere dentro. Sarà che continuo a tenerti stretto tra quegli spazi che ho tenuto vuoti solo per te, sarà che nonostante tutto torni sempre a riempirli, ma mai completamente. Sarà che mi ero immaginata un’esistenza libera, senza contare che tu ne avresti fatto comunque parte, sempre, perché non potrei immaginare libertà più grande del poter dividere con te ognuno dei giorni che ci saranno concessi.
E vorrei che tu fossi la mia venticinquesima ora. Vorrei che tu fossi quel tempo in più libero da costringimenti, quel tempo ideale in cui fare tutto ciò che durante il giorno non ci possiamo permettere, quel tempo sempre privo di impegni, quel tempo che possiamo riempire con ciò che vogliamo, quel tempo fuori dal tempo che non farei altro che dedicarti. Nella mia venticinquesima ora verrei a cercarti ogni giorno, ti prenderei la mano e ti farei vedere tutte le cose bellissime che in questo e in altri viaggi mi è capitato di incontrare. E ne scopriremmo di nuove, lungo la strada. Come il guardarci negli occhi senza muovere un muscolo, solo per il piacere di immaginare quanto meraviglioso sarebbe riuscire a toccarsi davvero. E dopo la venticinquesima ora potresti diventare il trentaduesimo giorno prima della fine del mese, e la cinquantatreesima settimana prima del nuovo anno. E poi tutto il resto del tempo. E potremo essere felici, nella nostra venticinquesima ora, e quella venticinquesima ora sarà un tempo nostro soltanto, quella parentesi dalla crudeltà del mondo che riusciremo sempre a prenderci, per non perderci.
Ma voglio tornare e raccontarti tutto adesso. Voglio tornare e provare con te ognuna delle sensazioni che ci siamo persi per strada. Voglio tornare e guardarti negli occhi e stupirmi di quanto siano ancora più belli che nel sogno. Voglio tornare e dirti che ho guardato il cielo ogni notte pensando che era lo stesso che proteggeva te. Voglio tornare e dirti che quel temporale non l’ho guardato da sola, e che mi sono ammalata sotto la pioggia della tua troppa assenza. Voglio tornare e raccontarti della malinconia che mi attanagliava lo stomaco per il troppo pensarti e il troppo non vederti, per il troppo cercarti e il troppo non riuscire a trovarti mai.
E ti racconterò di come io mi sia svegliata ogni mattina con i tuoi occhi accanto, e di come ogni sera io mi sia addormentata chiedendomi se i tuoi fossero già chiusi. E ti racconterò delle notti, sempre insonni, e di quei battiti che facevano così rumore che mi pareva ci fossero anche un po’ dei tuoi insieme. E ti racconterò ogni onda e ogni granello di sabbia che mi sono rimasti addosso nelle lunghe passeggiate che ho fatto immaginando ci fossi tu a guidarmi lungo il cammino. E ti racconterò di tutte le conchiglie il cui suono ho portato all’orecchio, sperando avesse almeno un po’ del ricordo della tua voce. E ti racconterò che il caffè aveva un sapore diverso ognuno dei giorni in cui sono stata lontana, e che faticavo a mandarlo giù perché sapeva della tua mancanza, lo stesso che ha ognuno dei giorni in cui non posso scorgerti con la coda dell’occhio. E ti racconterò, per ognuno degli orizzonti in cui il mio sguardo si è perduto, quanto io abbia sperato di vederti camminare tra l’erba alta, con il sole sul viso. E infine ti racconterò di quanto mi faccia sorridere anche il solo immaginare di poterti dire sul serio queste ed altre cose bellissime.
Ma tu promettimi di non parlare e di venire in silenzio a riempire quella stanza immaginaria che ho arredato solo per te; promettimi che avremo così tanto tempo da annoiarci, e promettimi anche che lo sapremo riempire tutto; promettimi che non dovremo chiedere nulla perché sapremo bastarci. Promettimi che ci sarà sempre il sole nei nostri occhi anche se fuori piove, che saremo sempre caldi del nostro tepore anche in mezzo alla neve, che sapremo sorriderci anche tra le tempeste che ci troveremo ad affrontare.

Promettimi questo e avrai tutto il resto del mio tempo. Non promettermelo, e lo avrai comunque. 

giovedì 5 luglio 2012

Avevo solo bisogno di piangere. E di una spalla su cui farlo.

Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui non ho versato una lacrima, e invece era proprio il caso di farlo, che a tenerle dentro le cose poi ti si indurisce il cuore, e cominci a morire.

Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui ho cercato di chiedere aiuto rifiutandolo, per tutte le volte che puntualmente l’aiuto non è arrivato, per tutte le volte in cui mi sono data della stupida, che se magari lo dici, come stai, ecco magari l’aiuto poi arriva. Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui “tanto non ho bisogno di aiuto”, per tutte le volte in cui, proprio per questo motivo, mi sono trovata a un passo dal baratro.

Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui un modo per stare meglio mi era anche venuto in mente, ma che poi mi è mancato il coraggio, perché sì, a me anche la sola idea di poter stare bene fa paura, perché non mi ricordo più come ci si comporta, quando tutto va per il verso giusto.

Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui sì, ho ammesso che il mio stato d’animo preferito è la malinconia, ma ho poi omesso di dire che vorrei una mano che stringe la mia nel mentre.

Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui ho perso tempo a pensare, invece di agire.

Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui ho detto un “no” che era un “sì” solo per trasmettere che in realtà la risposta giusta era un “forse”, e che dipendeva da chi mi aveva posto la domanda.

Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui ho sbagliato e lo sapevo, ma avevo pronta una scusa, o un colpevole.

Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui ho detto che sarei voluta rimanere su quella spiaggia a fare surf, e poi invece non ci sono più tornata. E per quel ragazzo che è ancora lì.

Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui sarei potuta andare in Germania, e per tutte le volte in cui ci sono andata ma poi sono ripartita.

Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui non mi sono fermata un momento a pensare che volendo ce l’avrei anche potuta fare, e per tutte le volte in cui mi sono fermata, l’ho pensato, e poi non l’ho fatto lo stesso.

Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui ho risposto con un grugnito a delle parole di affetto, per tutte le volte in cui poi mi sono stupita che quelle parole non arrivassero più.

Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui ho cercato di far capire che non è che io l'affetto non lo provo, solo lo dimostro in modo diverso. Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui l'affetto proprio non l'ho dimostrato.

Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui non gliel’ho detto, che le nostre chiacchierate sono la cosa migliore delle mie giornate, e per tutte le volte in cui gli ho risposto male, sperando lo capisse. E se te lo stai chiedendo sì, sto parlando di te.

Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui sono stata triste al momento del saluto e non l’ho detto, neanche dopo, neanche quando era evidente. Neanche quando fingevo non me ne importasse nulla. E beh, era tutto il contrario.

Un pianto ininterrotto per quella volta in cui sono stata felice, l’ultima, quella che ci sto ripensando e ancora sorrido. Quanto sono state belle quelle ore, che sono la mia speranza, di certo non ve lo dirò, e per questo un altro pianto ininterrotto.

Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui ho pensato di dirgliele, certe cose, ma poi non l’ho fatto, salvo poi passare notti insonni a tormentarmi. E poi ci chiediamo ancora perché quella panchina sia vuota, adesso.

Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui ho deciso di non decidere, sempre troppe. Che come qualcuno mi ha detto, anche non decidere è prendere una decisione.

Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui ho pensato che fosse troppo tardi, e invece non lo era affatto. Proprio come adesso. Per tutte le volte in cui lo stesso rimango ferma.

Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui rileggerò queste righe, e non sarà cambiato ancora niente.

Un pianto ininterrotto per tutte le volte in cui non avrò ancora pianto.

giovedì 21 giugno 2012

Quattro giorni di niente.

Quattro giorni. Casa libera per quattro giorni.
Quattro sere in cui tornare a casa e non dover mentire rispondendo che sì, va tutto bene, che è stata una buona giornata; quattro notti insonni in cui poter girare per casa senza preoccuparmi se faccio qualche rumore, che tanto non c’è nessuno da svegliare; quattro silenziose mattine in cui nessuno mi rivolgerà la parola appena sveglia facendomi domande stupide, quindi quattro mattine in cui potrei anche non incazzarmi tre secondi dopo essermi svegliata. Non male. E poi uscire di casa, andare in università, studiare, pranzare, studiare, e tornare a casa quasi di buonumore, perché finalmente lì non ci sarà nessuno a farmi domande, nessuno a cui mentire, nessuno a cui dover sorridere per forza. Perché se non sorridi comincia la serie infinita dei “cosa c’è che non va?”, e non ne ho voglia, proprio no.
Voglio quattro giorni di silenzio, quattro giorni di solitudine. Voglio quattro sere di triste malinconia in un terrazzo buio, quattro sere di me che fisso il vuoto, quattro sere in cui dilaniarmi con le mie domande, quattro sere senza risposte. Voglio quattro notti a fissare il soffitto, quattro notti di straziante dolore, quattro notti in cui maledirti perché ancora una volta mi hai fatto perdere il sonno. Voglio quattro mattine in cui stupirmi di non aver passato la notte a piangere, quattro mattine in cui illudermi che forse, se non piango, è perché in fondo ne sono fuori. Stupide illusioni.
Voglio sentire solo i miei pensieri, in questi quattro giorni, e nient’altro. Non mi aspetto che cambi qualcosa, non mi aspetto di trovare risposte, non mi aspetto di smetterla di farmi domande.

Voglio solo una parentesi dal mondo, in questi quattro giorni.
Voglio quattro giorni di niente.

Altro che quaranta secondi.